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I TEMPLI DI PASHUPATINATH

Aggiornamento: 1 mar 2018

Kathmandu (Nepal), 2 febbraio 2011.

Una delle tante versioni del mito vuole che il dio Shiva, dopo essersi trasformato in un’antilope, abbia messo piede (o zoccolo che sia) su queste sacre zolle e da tale leggenda deriva la suprema importanza religiosa dell’antico complesso di templi di Pashupatinath. Purtroppo tutta l’ampia zona sacra sorta sulle rive del fiume Bagmati è rimasta oggi completamente inglobata all’interno del caotico tessuto urbano di Kathmandu, nonostante ciò pellegrini e devoti continuano a visitare i templi, attratti dalla spiritualità e dalle raffinate architetture religiose.

Il santuario principale è costruito nello stile tipico della valle di Kathmandu, con poderose travi in legno finemente scolpite e adornate di statue del ricco pantheon di divinità induiste; e i due livelli del tetto a pagoda mostrano un prezioso rivestimento ed un pinnacolo d’oro. Ci sono quattro ingressi principali, ma l’accesso al santa sanctorum, dove è conservato il sacro lingam di Shiva, oggetto principale del culto, è vietato ai non induisti. Poco male, la più grande attrazione per i turisti a Pashupatinath è forse rappresentata dai tanti sadhu e dagli altri tipi di religiosi che affollano l’area, ricca di santuari, di tempietti, di caverne e di loculi bui dove vivono da centinaia di anni mendicanti e asceti.

Malgrado d’inverno il freddo sia pungente alcuni sadhu indossano solo uno striminzito perizoma arancione, ricoperti da uno strato di cenere sulla pelle che simboleggia la morte e quindi la possibilità di una rinascita spirituale. Portano capelli lunghissimi che toccano in certi casi addirittura terra oppure raccolgono i dreadlock in un poderoso chignon sopra la testa.



Agli occhi dei turisti i sadhu sembrano una specie di cartolina del Nepal con quelle loro acconciature, le ossa sporgenti, l’uso rituale di hascisc e l’uso primitivo di vistose decorazioni corporali. Se vien facile pensare a una pagliacciata per intercettare meglio le elemosine, i sadhu invece vanno ancor considerati come lo zoccolo duro e irriducibile dell’ascetismo, una specie di assicurazione dell'induismo nei confronti del materialismo e della cultura laica e razionale promossa su scala planetaria dalla globalizzazione. Fra India e Nepal centinaia di migliaia di religiosi ogni anno rinunciano alle proprietà, alla famiglia, al sesso, e a qualsiasi altro legame terreno per accelerare il processo di estinzione del karma: i ‘semi’ annidati nella mente che sarebbero responsabili di ogni azione futura, secondo l’implacabile legge di causa-effetto. Alcuni sadhu interpretano discipline spirituali stravaganti ai limiti dell’umano: rimanere in piedi giorno e notte, tenere in alto per anni un braccio che stringe il rosario ed essere seppelliti vivi.

«La maggior parte dei mendicanti che vedi è però soltanto travestita da religioso per ottenere delle elemosine», mi spiega il ragioniere nepalese col quale ho iniziato a chiacchierare; egli visita quotidianamente Pashupatinath per distribuire a tutti qualche moneta: «Tuttavia non mi importa, un giorno potrei davvero aver il privilegio di sfamare un vero santo, e allora quel gesto ricompenserebbe la mia anima per sempre!».

Alcuni sadhu mi invitano ad una fumatina portando alla fronte solennemente il cilum, altri si limitano più pragmaticamente a far tintinnare la latta delle offerte. Vago così ormai da un pezzo perché — una volta superato il disagio di sentirmi interessante solo per via dell’euro forte — la verità è che la zona di Pashupatinath ha qualcosa di terribilmente affascinate. Il fiumiciattolo pieno di liquami sulle rive del quale dimora la maggior parte dei templi è considerato il luogo più auspicabile per essere cremati, una specie di non plus ultra per il destino della propria anima, e le famiglie spesso percorrono centinaia di chilometri pur di poter regalare ai loro cari un degno trapasso. Essere bruciati, ridotti in cenere, e poi ‘liberati’ nelle stesse acque dove Shiva scorrazzò liberamente è un privilegio che trasforma questo malsano tratto del Bagmati in una processione di cadaveri no stop.

Da un balcone che affaccia sul fiume mi metto comodo ad osservare una processione funebre. Il baldacchino dell’anziano defunto e i suoi più stretti famigliari avanzano compostamente fino al ghat, una delle piattaforme costruite sul fiume; e la morte diventa spettacolo quando il defunto viene adagiato sopra l’alta pira funebre. Si sente solo qualche singhiozzo, qualche scintilla scoppiettante provenire dalle altre salme in lontananza e i visitatori di un celebre sadhu non distante sganasciarsi sotto gli effetti della marijuana. E poi un colpo sordo: il primogenito vestito di bianco ha spaccato il teschio del padre, seguendo l’antico rituale. Niente pianti o lamenti, il funerale deve essere una solenne cerimonia in onore del viaggio che è la morte e non una triste rimembranza: gli induisti invece di dire che qualcuno è morto, usano l’espressione ‘ha lasciato il corpo’ è ciò avverrebbe esattamente dal foro che il primogenito ha appena praticato nel cranio del defunto.



Il cadavere inizia a gonfiarsi. Il fumo avvolge gli astanti; malgrado il sandalo e gli incensi l’olezzo violento di carne abbrustolita sta fomentando l’ansia alimentare di un cane che ha iniziato a rovistare fra la spazzatura, i liquami sacri e l’indifferenza dei presenti, in cerca di qualche osso o resto umano. L’ultimo degli ultimi, un uomo della casta che sola può occuparsi dei cadaveri, aggiusta abilmente le fiamme servendosi di un palo di bambù. Con pochi sapienti tocchi ogni volta rimesta un cippo, un piede, un braccio che non si lascia bruciare mentre il volto del cadavere trasfigura in una maschera di fuoco. In lontananza gli altri roghi aggiungono un tocco spettrale e seriale alla morte, una sequenza incantatrice da cui vengo destato improvvisamente grazie alle musiche gioiose dei tamburi e dei flauti. Soltanto un centinaio di metri più in là, sulla scalinata che dal tempio finisce nel fiume, una folla scalmanata di giovani supporter s’è radunata in onore di Shiva, signore di tutto, della morte e della vita, della gioia e del dolore, dell’eccesso e dell’ascetismo. I preti brahmini volteggiano estatici al ritmo dei tamburi tenendo in mano delle vistose piume, ma l’incitamento fornito dai devoti presenti ricorda la curva di uno stadio di calcio piuttosto che la funzione religiosa. Intanto sulla pira funebre uno dei piedi non vuole saperne di ardere correttamente. Sono disorientato: d'accordo la morte è in scena soltanto come assoluta dissoluzione della materia fisica, tuttavia il culto gioioso di Shiva appare beffardo nei confronti di quello che dovrebbe essere sempre e comunque considerato il momento più severo nell’arco dell’esistenza umana. Mi rimane difficile accettare la complessità dell’esperienza umana, non opporre la vita alla morte, come il bianco al nero, la luce all'oscurità: evidentemente a sentire il peso che ho nello stomaco la cosa non è poi così razionale. È la paura della morte, il timore che questo esserci termini assieme alla materia, che questo nostro pensare un giorno finisca per sempre. E puoi anche credere a priori nel paradiso, nella reincarnazione o in quello che ti pare, ma se non hai veramente estirpato dalla mente la logica di un inizio e di conseguenza di una fine, la paura della morte te la porterai sempre dietro come fosse una gomma da masticare appiccicata alla suola delle scarpe mentre te ne vai a zonzo nella vita.

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