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  • Immagine del redattoreFabio

NIRO E IL BEDFORD

Aggiornamento: 19 gen 2018

Sydney, Australia. 2004



«I veri viaggi all’inizio devono essere difficili», dichiarò alla fine Niro, il gentile tabaccaio che accoglie sempre i clienti con mille darling nel suo negozio di pipe, bong e sigarette.

Dietro al suo bancone, Niro aveva preso il telefono e incominciato con calma a cercare un carroattrezzi. Fuori Bondi road era battuta da una pioggia fitta e scrosciante e io ne avevo riportata dentro abbastanza da fargli capire che quello del non avere un ombrello era l’ultimo dei problemi. Il Bedford bus, comprato neanche due ore prima, era fermo in una stradina adiacente a Centennal Park: per le sue cinque tonnellate e per i suoi otto metri di lunghezza serviva un mezzo eccezionale.

Una signorina al telefono aveva continuato impassibile a ripetermi che serviva il nome di una company per poter prenotare un carroattrezzi, ma il bus in questione neanche era assicurato. E così alla fine mi aveva abbandonato alacremente al mio destino, senza ombrello. Stentavo ancora a crederlo, dell’umidità non imputabile alle condizioni meteo si era accumulata velocemente sugli occhi. Niro, il factotum, affittuario, nonché unico amico e contatto concreto in tutta l’Australia era la sola speranza.

Niro conosceva già bene la nostra storia. Due settimane prima, dopo un paio d’anni d’allenamento, la stesura di una sceneggiatura di trecento pagine e vani tentativi di trovare un finanziamento, io e Flavio eravamo finalmente atterrati in Australia, per tentare di compierne l’intero giro (12.000 km) di corsa, con l’idea di farne uno strano film-documentario, dove le reali situazioni vissute durante l‘impresa avrebbero dovuto essere 'fictionizzate' e girate on the road. Duemile bustine di Polase Sport, sei paia di scarpe, il cofanetto completo dei dvd di Charlie Chaplin – quella era stata l’unica condizione impostami da Flavio visto che aveva giurato alla madre di laurearsi e di scrivere la tesi – quattro stracci, le luci, le gelatine e gli stativi. All’aereoporto di Sydney la dogana aveva voluto sapere che tipo di nuovo stupefacente trasportassimo, mentre i cani già provavano a fiutare. Alla fine l’impresa atletica aveva tagliato il nastro australiano con quattro buste di plastica a supporto, considerando che non c’era stato verso di richiudere tutto nelle valigie.

Pochi giorni dopo eravamo corsi a Wollongong per acquistare un autobus del 1965, e Lui neanche ce l’aveva fatta ad arrivare al parcheggio. C’erano piaciuti subito il letto matrimoniale, il divano, l’arredamento, le rifiniture in legno laccato e i proprietari testimoni di Geova che lo abitavano. La coppia attempata ci aveva offerto del thè caldo nelle tazzine buone mentre fuori il sole esplodeva in un tramonto difficilmente esprimibile, e io e Flavio in fondo siamo dei gran romanticoni.

Appena entrati a Sydney il cambio ci aveva abbandonato e il bus era scivolato pericolosamente al lato della strada. Eravamo rimasti lì per un pò a imprecare finchè una prostituta ignara salì a bordo complimentandosi per gli interni e gli arredi e offrendoci i suoi 'servizi orali' a prezzi di favore. Hang On diceva sul volante l’adesivo beffardo che qualcuno aveva appiccicato qualche decennio prima. Tenete duro.


Una pioggia del genere, i telegiornali proclamarono felicemente, Sydney ed il New South Walles non la vedevano da sei anni e intanto Ian Thorpe aveva vinto il suo quinto oro, tutti nella stessa competizione olimpionica. La città aveva visto in due giorni le stesse precipitazioni di un anno intero e continuava a piovere intensamente, cosa che mi riportava alla mente il manifesto di una chiesa anglicana non distante: «Ian Thorpe ha vinto cinque ori? Dio ha creato la terra in sette giorni!». E io non posso correre un paio d‘anni per l‘Australia? Cercavo di tirar fuori del coraggio, con soli 10.000 dollari in due rimasti in banca, dopo averne appena buttati altrettanti per il bus.

«Senza assicurazione niente carroattrezzi», Flavio non aveva ancora imparato ad accettare la nostra cattiva sorte: «Niro, siamo nella merda!».

Niro invece manteneva la cornetta in mano, fiducioso, e al secondo tentativo sembrò aver già risolto il problema: «Vogliono sapere il nome della via in cui è fermo il bus».

«Govell street», farfugliai mentre Flavio, per l’ammirazione, ripeteva senza sosta: «È un grande. È l’unico contatto che abbiamo!».

In effetti su Niro potevamo fare affidateto per ogni cosa, dalla lavatrice, alle stampanti, alle ricariche del telefono, al giornale e ad ogni altro materiale commerciabile. Provava una certa spontanea simpatia nei nostri confronti; come lui stesso sosteneva, in un’altra vita, il caso gli aveva riservato un’origine o un’incarnazione italiana, giustificando così quella sua passione naturale per gli abitanti del belpaese.


A Govett street, parcheggiato fra le belle villette in fila, c’era il nostro vecchio bus bagnato. La strada deserta sembrava la deriva del nostro destino e il rimorchiatore con la sua possente gru, imbellettata di catene, era il nostro inconsapevole traghettatore. Pagammo il tassista e ci riversammo in strada come correnti ascensionali. In fondo alla strada, emerse dalla pioggia, lentamente, un uomo in un impermeabile giallo. Da sotto la visiera ci salutò appena e noi ci presentammo con quei nostri nomi troppo simili per essere assimilati da un australiano. Il suo inglese divenne subito spesso incomprensibile:

«Di che anno è il bus?».

«Del 65», risposi io.

«Lui del 68», affermò quello dopo un po’ indicando il caarroattrezzi. Peccato solo che il suo funzioni ed il nostro no.

Intanto sugli usci delle villette schierate sul marciapiede si era affacciato qualche curioso per assistere a quel titanico incontro fra i due impavidi mezzi degli anni Sessanta. In particolare una signora s‘era avvicinata educatamente per esprimere una certa preoccupazione per quel nuovo ‘appartamento‘ spuntato come un fungo proprio di fronte a casa sua: una volta un simile bus era rimasto parcheggiato vari mesi davanti al suo giardinetto, facendogli appassire tutti i fiori.

Recuperammo un briciolo di speranza: il rimorchiatore avrebbe dovuto per forza conoscere un’officina all’altezza dei nostri problemi. Le luci delle sirene in cima al rimorchiatore si misero a rullare, propagando recidivi fasci di luce. Quando le cinque tonnellate del Bedford furono imbrigliate dalla gru i curiosi sugli usci raddoppiarono. Il bus venne sollevato di un palmo da terra e così scortammo, impotenti, il futuro del nostro grande progetto dal meccanico.


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