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PHNOM PENH E IL LAGO CHE SCOMPARE - prima parte

Aggiornamento: 1 mar 2018

Phnom Penh (Cambogia), 20 Gennaio 2010.

Se c’è una cosa che ho amato veramente di Phnom Penh era proprio il suo lago, Boeung Kak. Una capitale con un vasto lago al centro; una circostanza che sembrava esprimere, già da subito e anche geograficamente, quella commistione tipicamente cambogiana: Tik dei khmer, un paese dove acqua, terra e monsoni si integrano indissolubilmente.

Parlo al passato perché Boeung Kak è ormai praticamente un ricordo, qualche mese ancora e sarà del tutto prosciugato. Infatti i quasi novanta ettari di terra ‘emersa’ dal lago vedranno sorgere una nuova, futuristica e imponente, Global City. Phnom Penh presto avrà i suoi appartamenti prestigiosi, i grattacieli e i grandi centri commerciali che le mancavano, proiettando i cambogiani verso la modernità e una sola specie di spazio sociale e umano. È la sorpresa che ho trovato appena arrivato in città. La monotona tranquillità del cementò cancellerà quel poco di natura e di diversità culturale che facevano di Phnom Penh ancora un posto fuori dai canoni della globalizzazione. Mi avevano avvertito, sarebbe stato duro da digerire: il lago è ormai un vasto e brullo tondo di sabbia. E le gru già incombono come dinosauri sulla preda.


Tutta l’area che s’era creata spontaneamente fra la moschea e le rive del lago Boeung Kok era un piccolo mondo a parte. Un dedalo di vicoli strettissimi nei quali trovavi case, baracche, decine di modeste pensioni, bancarelle e ristoranti, porta a porta fra immondizia, altarini per gli spiriti, cani, scimmie che correvano sui grappoli di fili della corrente, ratti, bambini, spacciatori e prostitute. Boeung Kak era il relitto di una capitale che si era ricostruita alla meglio dopo la cacciata dei Khmer Rossi, un luogo d’incontro spesso fuori dalle righe che da decenni riusciva però, nonostante le difficoltà e i traffici più o meno leciti, pacificamente a sopravvivere.

Per tutti, locali e turisti compresi, Boeung Kak non era solo un’oasi rispetto al traffico di SUV, di biciclette e di motorini: era l’improvvisa irruzione nella capitale dello stile di vita tipico delle campagne cambogiane. Bastava svoltare all’altezza della moschea, prima dell’ambasciata francese, percorrere poche centinaia di metri, per ritrovarsi su un’amaca a contemplare i magnifici tramonti e le imbarcazioni a remi dei pescatori, sopra palafitte conficcata nei fondali limacciosi del lago. Certo, non erano ancora poi troppo lontani i tempi in cui serpeggiava la malaria, il lago era ancora terribilmente inquinato, malgrado ciò non sembrasse poi essere un problema per i locali che hanno sempre pescato, nuotato e vissuto a strettissimo contatto con queste acque. Mancavano le fogne, serviva un depuratore, un vero piano regolatore, ma asciugare il lago: come si può pensare di togliere di mezzo un lago che ha sempre assorbito e ridotto il rischio d’inondazione della città durante il monsone?

Tutta la zona sembra ora uno strano cantiere al contrario, con la gente che spalla muri, raccogliendo pali e assi di legno, staccando e conservando chiodi, lamiere e sanitari, per venderli o riutilizzarli, lasciando fra le case ancora in piedi le surreali orme di quello che c’era.

Da un vicolo la musica tradizionale dei matrimoni sembra essere una burla, una specie di gioiosa marcia funebre del quartiere. Stasera ci sarà festa e le donne si stanno truccando eccitate, acconciandosi con qualche ricciolo da regina, mentre gli operai finiscono di addobbare e decorare a festa l’abitazione degli sposi, i tavoli e le poltrone.

Una vecchia che vende la frutta mi conferma in piena rassegnazione la storia del risarcimento collettivo: il ricollocamento in un appartamento in periferia oppure quei 8.500 dollari da accettare senza una trattativa. Non ho il coraggio di chiederle dove e cosa farà in futuro per campare: i cambogiani hanno gli anticorpi, sono abituati al pensare «si vedrà».

Entro nel ristorante indiano che con due dollari all you can eat ma del mio amico Peter non c’è traccia, malgrado sia rimasto intatto il sudicio style del locale. Da quando era arrivato in Cambogia Peter s’era dato ai vizi e alla carne, in tutti i sensi, alla faccia del vegetarianismo stretto, della moglie e della famiglia.

La nuova proprietaria del ristorante, una vietnamita con i capelli troppo tinti, ripete sempre le parole due volte, in inglese e poi in khmer, spaventata che io non capisca.

«Ora io proprietaria… Peter ha insegnato cucina», spiega mentre si muove fra i tavoli.

«Sì ma dov’è Peter?», le chiedo.

«Peter problemi, no soldi, donna che aveva prima fregato. Perdeva sempre soldi a casinò. Casinò Naga no good, poi lei preso 1.000 dollari e scappata via».

«Glielo ho detto mille volte di lasciar stare quella donna».

«Lady no good», continua a ripetere facendo pure la faccia da no good.

«Salutamelo se lo vedi».

«Solo quando ubriaco viene qui e dice sempre cose brutte a me e a gente».

Peter è mezzo impazzito. Da qualche giorno però avrebbe ripreso a lavorare in un altro ristorante pur di riprendersi il passaporto da un tizio a cui l’ha affidato in garanzia per un prestito. Poi, alcool permettendo, tornerà finalmente a casa, in India, dalla moglie dopo quasi dieci anni intensi di birra e vietnamite.

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